martedì 11 agosto 2015

Voglia di lavorare

Diciotto luglio, tre e un quarto del pomeriggio.
Piazza Ara Coeli, a Roma, è come un’isola circondata dal sole e dall’afa.
Due autobus verdi inclinati su un lato, sperduti negli spazi rettangolari del capolinea, sembrano vecchi ricordi abbandonati al loro destino. L’autobus della linea 91 è ancora vuoto.
Il primo passeggero a salire è un signore in giacca e cravatta, di età indefinita, con una borsa da avvocato; il secondo e il terzo passeggero sono una signora piuttosto attraente insieme al bambino; il quarto passeggero è un omone corpulento, che si depone sul proprio sedile con un esagerato sospiro. Tutti e quattro si trovano nella metà anteriore dell’autobus, vicino al posto guida del conducente, assente.
Soltanto l’uomo in giacca e cravatta ha scelto un posto rivolto in avanti, verso il frontale della vettura, mentre l’omone, la signora e il bambino si sono accomodati in due file di sedili sistemati gli uni di fronte agli altri: l’omone da una parte, la mamma col bambino dalla parte opposta, il signore con la borsa da avvocato un po’ defilato.
«Che caldo terribile», dice l’omone a tutti, asciugandosi il collo con un fazzoletto di cotone. Ha più di sessant’anni, il viso grande e poche rughe, le maniche della camicia rimboccate, le braccia assai robuste. Alla signora chiede: «E' molto tempo che aspettate di partire?» La signora sorride timidamente. «Veramente sono salita solo da un paio di minuti.»
L'omone annuisce e si rivolge all'uomo con la borsa da avvocato: «E lei? Sta aspettando da molto?»
Il professionista non gira nemmeno lo sguardo. «Io sono salito un attimo prima della signora.»
«Ah.»
C'è “Ah” e “ah”, e quello dell'omone non è nemmeno lontanamente un “Ah” di soddisfazione. Si guarda un poco intorno, per valutare la situazione, dopodiché si rivolge di nuovo alla signora.
«Che bel bambino simpatico. Quanti anni ha?»
Il bambino in questione, seduto a gambe penzoloni accanto alla mammina, comincia a battere i talloni contro la base del sedile.
La signora sorride e dice, accarezzandogli la testa: «Quattro anni e mezzo». Immediatamente il piccolo si mette a battere i piedi ancora più forte. «E come ti chiami, eh?», insiste l'omone, che a quanto pare ha voglia di chiacchierare.
Il bambino si protende in avanti e si gonfia come un rospo. «Alessandro!», proclama, con voce lacerante, facendo sussultare il signore con la borsa. Salgono altre tre persone: due ragazze dalla carnagione molto pallida e un ragazzo con gli occhi da orientale. Prendono posto in tre sedili uno dietro l'altro, sul lato destro della vettura e quasi in fondo, ben separati dagli altri passeggeri. Dal modo di vestire e soprattutto dal modo di sorridere, senza apparente motivo e senza apparente riposo, si capisce che sono stranieri, soltanto di passaggio, e non indigeni locali, costretti a rimanere. L'omone li osserva con disapprovazione, tamponandosi il sudore con il fazzoletto di cotone. Ha i primi due bottoni in alto della camicia bianca sbottonati e da sotto sporge il collo di una vissuta canottiera.
«So la canzone di Furia», dichiara il figlio della signora, smettendo di battere i talloni. L'omone dice: «Ah sì? Che bravo» e subito dopo aggiunge: «Ma non parte mai, quest'autobus? L'autista se ne è andato al bar, scommetto. Mentre noi, qui dentro, ci schiattiamo di caldo!»
La lamentela è chiara, l'accusa pure. Le parole si spandono nella vettura, con una durezza inaspettata, che, esaurito l’effetto effimero della sorpresa, non producono particolari risultati. Nessun commento da parte del signore in giacca e cravatta, che tira fuori dalla sua borsa un quotidiano spiegazzato; un sorriso incerto sul volto della bella signora, che sposta lo sguardo verso un punto lontano, al di là dei finestrini; un paio di risatine prive di significato dalle due ragazze pallide e straniere; un’occhiata di sbieco, un po’ preoccupata, da parte del loro amico con gli occhi a mandorla, tipo cane da pastore che controlla l’orizzonte.
Solo il bambino riprende l'iniziativa.
«Ti canto la canzone di Furia, eh?», propone, con aria speranzosa, e basta che l'omone sorrida automaticamente per attaccare a razzo: «Furia cavallo del west! Che beve solo caffè!»
Al suono di queste stridule strofette, sale l'autista dell’autobus. Un giovanotto dall'aria diffidente, che apre lo sportelletto di vetro del suo posto di guida e si immerge subito nella lettura di un giornale sportivo.
«Speriamo che adesso si parte», commenta l'omone, strizzando un occhio e facendo segno con la testa verso la cabina di guida. «Che c'è a chi gli piace vestirsi e c'è a chi gli piace tuffarsi, non so se mi spiego.» Non si era spiegato affatto, ma la signora di fronte a lui per cortesia sorride.
Il bambino intanto prosegue la sua esibizione. Purtroppo conosce poco e niente della famosa canzone che vorrebbe cantare, e la frase “Furia cavallo del west!” comincia a ripetersi in maniera molto allarmante, non facendo avanzare di un passo la melodia.
«Dai, smettila Alessandro», propone ogni tanto la madre, con la scarsa convinzione di chi è assuefatto alla sconfitta. Al terzo invito inutile, il signore in giacca e cravatta si alza per andarsi a sedere più lontano, con l’aria di chi ha già ucciso per molto meno.
L'omone gira su se stesso e si rivolge direttamente al conducente, sventolandosi il viso con il fazzoletto. «Ma non parte più, quest'autobus?», dice. «E' un'ora che stiamo aspettando, qua.»
L'autista risponde senza girarsi e senza smuovere le pagine del suo giornale. «L'autobus parte quando è ora di partire, alle tredici e venticinque. C'è una tabella di marcia che bisogna rispettare.»
L'omone alza le spalle e si asciuga la fronte, che luccica vistosamente. «Quando gli fa comodo, c'è la tabella di marcia», commenta in tono sarcastico, cercando lo sguardo della bella signora.
Il ragazzo straniero mormora qualcosa di incomprensibile e le sue amiche ridono come bambine. «Ecco, la figura che ci facciamo, con i turisti», commenta l'omone, puntando il doppiomento verso il terzetto. «Che poi ci meravigliamo, quando dicono che gli italiani sono sfaticati.»
Stavolta l'autista dell'autobus si agita sul sedile, mandando un primo segnale di irritazione, ma a parte questo non dice nulla, neanche un sospiro, e l'uomo corpulento si rivolge di nuovo alla signora.
«Ma lei che ora fa? Possibile che ancora non sono le tre e venticinque?»
Lei ruota delicatamente il polso, per guardare l’ora sull'orologio.
«Io faccio le tre e ventitrè.»
«Allora, se Dio vuole, tra due minuti partiamo», conclude l'omone, con una smorfia carica di sarcasmo.
Segue un silenzio gonfio d’imbarazzante attesa, che in qualche modo contagia anche il bambino. Il fazzoletto dell’uomo che si sta lamentando, sventola incessamente avanti e indietro.
A pochi secondi dalle tre e venticinque, facendo ricorso al proprio orologio interno, l'omone non riesce a trattenersi e dice ad alta voce: «Voglia di lavorare, saltami addosso.»
Nella cabina di guida si sente il rumore del giornale sportivo, che viene sbattuto da qualche parte, e quello della leva del cambio, che viene strattonata avanti e indietro, mettendo in moto diabolici meccanismi.
Il motore borbotta di scontentezza e tutto l'autobus prende a vibrare in maniera evidente. Le porte dell’autobus si chiudono bruscamente e la vettura comincia ad allontanarsi dal suo capolinea.

Come già detto, piazza Ara Coeli è una piccola isola circondata dal caldo e dalla strada asfaltata.
Il 91 gira intorno all'isola, la costeggia con calma seguendo un arco di 180 gradi, quindi si ritrova sul lato opposto della stessa via da cui è partito (centocinquanta, duecento metri un po’ più avanti) dove c’è una fermata d’autobus che riguarda tre-quattro linee, oltre a quella del 91. Poiché in quel momento non c’è neanche un’anima, ad aspettare sul marciapiede, il conducente continua tranquillo, la stessa andatura, quando inaspettatamente si sente squillare il campanello di richiesta di stop.
Sebbene sorpreso, l'autista frena e poi rifrena un po’ più forte, finchè la vettura non si ferma completamente, quindi borbotta qualcosa che non si capisce bene e guarda nello specchietto retrovisore interno, per capire chi è che ha suonato per la fermata.
Maestosamente, con indolente fatica, come un monarca ormai segnato dagli anni, l'omone si alza e si dirige verso le porte aperte della discesa.
Con tutti i presenti che lo guardano affascinati, posa il suo corpo sui tre gradini, uno per volta, con più cautela di un esploratore spaziale. Tre piccoli passi, per un uomo. Un gigantesco balzo per l’Atac.
«Ma guarda ‘sto stronzo», si sente chiaramente, dalla cabina dell'autista, dopodichè le porte di uscita vengono chiuse e la vettura riprende la corsa.
“Se se la faceva a piedi, ci metteva meno di cinque minuti”, è il pensiero di tutti, a bordo del mezzo pubblico. Con un accordo raro, tra passeggeri e conducente, riguardo alla valutazione morale dell’accaduto.
“E sì, era proprio uno stronzo.”


[autore Andrea Bellizzi]

domenica 9 agosto 2015

Piani alti

“Avrei preferito un appartamento all’ultimo piano”, disse la ragazza guardando malinconicamente il bellissimo grattacielo.
Nonostante il cielo molto nuvoloso, che faceva filtrare solo pochi raggi di sole, alcune finestre brillavano come fari.
“Sì, lo capisco. Purtroppo abbiamo avuto moltissime richieste, in questo periodo”, spiegò l’incaricato dell’agenzia immobiliare, comprensivo.
Due giorni dopo, il satellite Felix 5 della NASA confermò che il secondo diluvio universale era cominciato davvero.


[autore Andrea Bellizzi]