lunedì 6 dicembre 2010

Mannaggia


Si svegliò come da un piacevole pisolino, tranquillo e rilassato, e la prima cosa che vide fu il viso di una ragazza, molto carina.
«Non si preoccupi. Va tutto bene», sussurrò la ragazza, e Claudio pensò: “E chi si preoccupa, mi sento come un papa. Ma guarda che sorriso.”
La ragazza, che appunto stava sorridendo, gli poggiò una mano, fresca, contro la fronte, e per un po’ la tenne lì continuando a sorridere, premurosa.
«Si ricorda cos’è successo?», sussurrò, guardandolo negli occhi.
Claudio si concentrò per un attimo, spinto dal desiderio di assecondarla, ma non gli venne in mente niente di particolare.
«No. Perché? Che cosa è successo?»
La ragazza tolse la mano dalla sua fronte e graziosamente piegò la testa di lato.
«Ce la fa a tirarsi un po’ su? A mettersi seduto?»
Soltanto adesso Claudio si rese conto di essere sdraiato. Sdraiato sdraiato, senza nemmeno un cuscino sotto la testa, che in effetti sentiva un po’ vuota.
«Coraggio, l’aiuto io», disse la signorina.
Claudio tirò verso di sé i gomiti, spinse per fare forza contro le palme delle mani, ma non riuscì a sollevarsi.
«Uff, è faticoso» ammise, un po’ perplesso.
«In genere ci vogliono due tre tentativi», lo rincuorò la signorina.
“Che bel sorriso”, pensò di nuovo Claudio. Più che altro, aveva voglia di fargli una buona impressione. Stavolta ci mise più impegno. Le mani della ragazza, ai lati delle sue spalle, diedero un contributo. Adesso era seduto.
Dette un’occhiatina intorno, piegando leggermente il capo sia a sinistra che a destra. Che strano: sembrava una grande sala completamente vuota.
«Ci vede bene?», chiese la signorina.
Anche questa volta prima di rispondere ci pensò sopra.
«Mi pare di sì. Non che ci sia tanta roba da vedere… Dove siamo?»
«In una sala di controllo», spiegò la ragazza.
«Ah. E controllo di cosa?»
«Controllo di qualità.»
«Ah.»
Non è che Claudio, con questa risposta, riuscì a capirne molto di più.
«Che colori vede, in questa sala?», chiese la ragazza.
«Colori?»
«Sì. Che colori vede, intorno a sé?»
Claudio si guardò di nuovo intorno. In alto e sulla sinistra non c’era nulla: né mobili né persone. A destra, invece, a parecchi metri di distanza, adesso c’era un’altra persona in terra, che forse prima non aveva notato. E un’altra donna, vestita come la sua signorina, gli stava di fronte.
«Grigio. Mi sembra tutto grigio. A parte il camice di quella signorina, tra il giallo e l’avana. Chi è quell’uomo, sdraiato lì?»
La ragazza non si girò per guardare.
«La persona che l’ha investita. E io come sono? Quali colori vede in me?»
«Non ho capito. Ha detto che sono stato investito?»
La ragazza annuì, continuando a sorridere. Sembrava un po’ divertita, ma senza alcuna intenzione di prenderlo in giro.
«Sì, le ho detto che quello è l’uomo che l’ha investita, ma le ho chiesto anche quali colori vede in me.»
Claudio guardò di nuovo l’uomo per terra, che adesso, come aveva già fatto lui, si stava tirando su a sedere. Anche lui era grigio. Tornò a guardare la sua ragazza: cavolo, com’era carina e come gli sorrideva.
«Ha dei capelli biondi. E gli occhi marroni. Belli tutti e due.»
Il sorriso della ragazza divenne appena un po’ birichino. «Ed il mio camice?», insistette.
«Un verdolino chiaro chiaro. Carino.» Di un verde più chiaro, se ricordava bene, di quello usato di solito dalle infermiere.
La fronte della ragazza, appena un filino, si aggrottò. «Hum.»
Ora qualcosa Claudio incominciò a ricordare.
«E’ vero: sono stato investito. Guidavo il mio motorino e un motociclista pirata mi ha preso.»
La ragazza si limitò ad annuire.
Claudio guardo nuovamente a destra.
«Non è che è lui, quello che mi ha investito?»
Stavolta anche la signorina guardò l’altro uomo.
«Sì, è lui», disse.
La ragazza che stava con l’altro uomo si girò dalla loro parte, forse sentendosi osservata, e la ragazza che stava con Claudio la salutò alzando un poco la mano.
«Come mai non sento niente?», chiese Claudio, un po’ perplesso.
«Non si preoccupi, è perfettamente normale, in questi casi», spiegò la ragazza.
«Ah.»
«Lei si definisce un credente o un non credente?», chiese la ragazza.
«Come, mi scusi?»
«Lei si definisce un credente o un non credente?», ripeté la ragazza.
«Eeeh… Non ho capito che c’entra adesso. Stavamo parlando di un incidente. Potrei sapere un po’ più di particolari, per cortesia?»
«Lei e quel signore avete avuto un incidente, ma adesso va tutto bene. Bisogna solo stabilire dove andrete», chiarì con amichevole pazienza la ragazza.
Claudio aggrottò la sua fronte, pesantemente, e cercò di riflettere in modo migliore.
«Il verde è un forte segnale di preparazione», continuò la ragazza. «Chi è pronto per proseguire percepisce la luce più verde degli altri. La vede in ogni cosa.»
Niente. Per Claudio, come spiegazione, non era affatto chiara.
(... segue)

Racconto di Andrea Bellizzi pubblicato nella raccolta di autori vari "Polvere sotto il divano", dedicata al colore verde, Perrone LAB editore.

Un colore vale l'altro


Riccardo appoggiò la mano sul bordo del cofano dell’automobile, facendola scorrere per un poco. Il metallo, perfettamente liscio e fresco, gli dette una piacevole sensazione.
- Allora? Che ne pensa? - chiese il proprietario dell’automobile.
Che ne pensava? Era bellissima, però quel colore della carrozzeria...
- Sì, va tutto bene. E' soltanto questo colore che, non so, non mi convince troppo - spiegò Riccardo.
Il proprietario dell'automobile, che aveva sessant'anni e una camicia bianca con delle sottili righe arancio, lo guardò con espressione quasi offesa.
- Sta scherzando? Questo colore è un Phoenix Orange 75. Ho fatto riverniciare l'auto con questo colore nel maggio del 2000, proprio per festeggiare il passaggio al nuovo secolo e per poterlo esibire sul lungomare di Rimini e Riccione, durante l'estate. Guardi che contrasto fa con il tetto in vinile nero.
Riccardo guardò il tetto della Ford Capri, lucido e ben conservato.
- Non so. Mi sembra un po' vistoso - si lamentò.
Il proprietario dell'automobile si lasciò sfuggire una risata.
- O beh, se cerca un'automobile che non attiri l'attenzione dei passanti, non è certo questa la sua vettura! Guardi che dovunque sono andato, dovunque l'ho lasciata parcheggiata, questa automobile ha sempre fatto girare la testa a un sacco di persone.
Riccardo arrossì e si spostò dal cofano anteriore alla fiancata. Stavolta, con la mano stesa, seguì la nervatura orizzontale che segnava, in rilievo, praticamente tutto il profilo della coupé.
Dio, che piacere che gli dava quel solido metallo scolpito alla perfezione...
Spinse il bottone situato sulla maniglia cromata dello sportello ed entrò all'interno della vettura.
Il largo sedile in finta pelle, privo di poggiatesta, lo accolse come una poltrona.
Il proprietario aprì l'altro sportello e gli sedette accanto, con una smorfia di dolore.
- Lei è fortunato. Se non fosse perchè mi è aumentato il mal di schiena, che mi rende difficile guidare un'automobile senza il servosterzo, non le cederei mai questo gioiello. Mi toccherà guidare una di queste scatolette piene di plastica, dove tutto sa di elettrodomestico finto.
Riccardo strinse il volante duro e senza porosità, della stessa consistenza di un disco 33 giri, e posò la mano sul pomello del corto cambio.
- Andiamo a fare un giro? - propose il proprietario dell'automobile.
- Andiamo a fare un giro - ripetè con un sorriso Riccardo.

Il bello di guidare una Ford Capri MK1 del 1972 è quello di guidarla "piano". Correre, con un motore 1.300 di 60 cavalli, meno prestazionale di una banale Fiat 127, non serve a molto; il piacere di guidare in scioltezza avendo davanti un frontale lungo e sempre parallelo al suolo, invece, che non sparisce in basso, visibile fino alla fine, cornice del mondo esterno, cornice della strada... beh, quello è un piacere davvero speciale, che nessuna aerodinamica auto moderna ti può regalare.
Le sensazioni rimandate dallo sterzo, poi, privo di servofreno, davano a Riccardo la sensazione di guidare qualcosa di prezioso e di vivo, che trasmetteva ogni avvallamento dell'asfalto nelle sue mani.
- Questo modello della MK1 è l'ultimo della serie nata nel '69 - spiegò il proprietario. - I successivi avevano una brutta gobba sopra il cofano per via dei nuovi motori 4 cilindri in linea, che andavano a sostituire gli indistruttibili V4 a corsa corta. Saranno stati anche più efficienti, ma la sensazione di tiro che ha questo gioiello ai bassi giri... ah, ragazzi, per me è sempre stata una goduria.
Aveva abbassato il finestrino destro completamente e, con il gomito appoggiato in fuori, si vedeva che se la godeva proprio.
Riccardo si sentì contagiato, da tanta contentezza. Gli sembrava di essere tornato a quando aveva vent'anni e ciò non aveva prezzo. Staccò l'assegno da 3.500 euro con un sorriso dentro di eccitazione. In fondo, un colore vale l'altro, quando sei al volante dell'automobile che ti piace.

L'uomo arrivò di corsa al finestrino, preoccupato.
- Come sta? Si è fatto male? - chiese.
Riccardo lo guardò con espressione vaga. Si sentiva assente, un po' confuso.
- Ha battuto la testa? Le fa male? - insistette l'uomo.
Riccardo si rese conto di avere le dita della mano destra che gli premevano la fronte e le guardò con attenzione, per controllare se vi fosse sangue sopra. Non c'era niente di colore rosso, per fortuna.
- No, sto bene, grazie - disse. - Cos'è successo?
L'uomo fuori dal finestrino indicò un punto indefinito, situato alle spalle della vettura.
- Il cane di una bambina. Gli è scappato di mano e ha attraversato la strada all'improvviso. La bambina gli è corsa dietro e per un pelo lei non l'ha investita. - L'uomo rifletté un momento, prima di continuare. - Se non sterzava a destra per evitarla, la prendeva in pieno. Io ho visto tutto, perchè stavo fumando, fuori dal mio negozio, e stavo guardando la sua macchina che passava.
Il cane e la bambina. Riccardo si ricordò di tutto. Aveva frenato a fondo, però non era stato sufficiente: per questo aveva sterzato a destra e... La macchina. Aveva sbattuto la macchina nuova contro il marciapiede.
- Porca puttana - mormorò, infelice.
(...segue)

Racconto di Andrea Bellizzi pubblicato nella raccolta di autori vari "Tramonti di ruggine", dedicata al colore arancione, Perroni LAB editore.

giovedì 16 settembre 2010

Facezie 05

Più passa il tempo e più divento distratto. Oggi ho perso anche le ultime illusioni.

sabato 26 giugno 2010

Facezie 04

Appello per Enrichetta:
Tesoro, ti prego, torna. Senza di te non sono nulla e non riesco nemmeno più a respirare. Ritorna da me, amore prezioso.
P.S.: se proprio proprio non volessi tornare, potresti mandarmi via sms o email il cellulare di tua sorella Samanta, per favore?

martedì 8 giugno 2010

La Panda e il lipizzano

«E adesso? Ci mancava solo la fila», sbottò l'uomo che guidava la Panda, rallentando bruscamente l'andatura.
Davanti a loro la strada a due corsie, che fino a quel momento avevano percorso velocemente, era ostruita da molte automobili incolonnate.
L'uomo che guidava guardò l'orologio d'acciaio. «Ma guarda se tocca trovare la fila anche all'una di notte. Che razza di città del cazzo. Non si campa davvero più.»
Accanto all'uomo che guidava c'era un altro uomo, tozzo e silenzioso. Con la mano destra stringeva la maniglia di sostegno fissata sopra il suo sportello e guardava la fila di macchine immobili senza apparente risentimento.
«Di questo passo arriveremo tra due ore. E chi lo sente poi a Pisanò», si lamentò di nuovo l'uomo che guidava.
L'altro guardò per qualche secondo a destra. «Tagliamo dentro la villa», propose, e anche l'uomo che guidava guardò verso destra per valutare la situazione.
«Sai che ti dico, Santino? Mò facciamo proprio così e chi se ne frega.»
Per far capire bene le sue intenzioni, l'uomo che guidava mise la freccia a destra e fece rombare il motore vistosamente, quindi si incuneò di forza tra la macchina che gli era a fianco e quella che la precedeva. Trovata la via d'uscita, la Panda accelerò con sorprendente potenza, facendo stridere le gomme nuove.
«Eh, che tiro che ci ha, la bestiolina, eh?», commentò l'uomo che guidava, con soddisfazione.
Continuando a stringere saldamente la sua maniglia di sostegno, l'uomo tozzo e silenzioso si limitò a sorridere.
«'Sto motore canta che è una bellezza», insistette l'uomo che guidava. Per confermare le sue parole, alla prima curva dentro la villa scalò di marcia con decisione e affondò il gas.
Intorno a loro c'erano solo piante e panchine vuote. La luce dei lampioni illuminava quanto bastava la strada asfaltata, solitamente riservata alle biciclette e alle ciclo carrozzelle per i turisti.
Non c'era più nessuno, com'era logico a quell'ora di notte; non c'era nessuno a parte due carabinieri a cavallo.
«Cazzo», disse l'uomo alla guida, cercando d'inchiodare facendo meno rumore possibile. La Panda si fermò con un paio di brevi sussulti, un po' troppo vistosi.

(da "La Panda e il lipizzano", racconto di Andrea Bellizzi, raccolta "La gente è strana")

mercoledì 2 giugno 2010

Mens Sana


A svegliare Francesco fu l'insieme di tre sgradevoli elementi: un brutto sogno in cui non trovava l'uscita per venire fuori da un edificio pieno di stanze, una lama di luce che filtrava da alcune stecche della serranda non chiusa perfettamente e la pressione del materasso, insolitamente duro contro la pancia piena.
Aveva mangiato troppo, bevuto troppo e dormito poco e male. Era dalla sera del 24 dicembre che stava rovinandosi la salute, e questa mattina, il 27 dicembre, ne sentiva addosso tutte le conseguenze.
Doveva alzarsi? Restare a letto?
In linea teorica avrebbe voluto continuare a dormire. Anzi, per essere esatti avrebbe voluto semplicemente dormire, perché la sua sensazione mentale era di non avere riposato per niente. La pancia gonfia, poi, gli dava abbastanza fastidio. Sia che poggiasse il corpo su un fianco sia che lo poggiasse sull'altro, qualcosa opprimeva il suo stomaco in maniera costante.
A che serviva non dovere andare in ufficio, se non poteva permettersi di dormire fino a tardi?
A pancia all'aria, ad ascoltare le proprie viscere che brontolavano per ciò che aveva mangiato, Francesco resistette però ancora per poco. Bastava il semplice peso della coperta di lana ad irritargli la pancia. La sentiva davvero troppo gonfia e troppo tesa. Tanto valeva uscire fuori dal letto e verificare la situazione.
Tolta la coperta che gli dava fastidio, Francesco si rese conto che nella stanza faceva freddo. Accese la luce sul comodino e andò a controllare la finestra: non solo dalla serranda mal chiusa filtravano due lame di luce, ma anche insinuanti sospiri di gelo.
Rimase indeciso se chiudere o lasciare aperto il vetro. Un po' d'aria fresca gli avrebbe fatto bene.
Alzò la serranda per fare più luce e aspirò una boccata d'ossigeno con una certa cautela.
Il sole c'era, la giornata non era malvagia: avrebbe dovuto approfittarne per fare una passeggiata.
Decise di darsi una controllata. Aprì lo sportello dell'armadio e guardò con attenzione la propria immagine, riflessa nello specchio che era appeso all'interno dello sportello sinistro.
Si vide troppo magro, senza nessun portamento atletico. In stato rilassato era ripiegato su se stesso e il ventre sporgeva. Mettendosi di profilo era anche peggio: il torace pareva inesistente, le spalle erano piegate avanti, la semisfera di un cocomero spingeva vistosamente in fuori la stoffa del suo pigiama.
Si scoprì la pancia e l'accarezzò come per rassicurarla. Non era una cosa bella a vedersi, ma non doveva avere paura.
Tirò su il pigiama fino a tenerlo fermo col mento e guardò il suo corpo senza alcuna protezione.
Gli sembrava di essere incinto. Non seppe resistere alla tentazione e comprimendo il respiro provò a gonfiare la pancia di più.
Così era incinto al settimo mese. Nonostante il risultato avvilente, non poté fare a meno di sorridere, a questo pensiero.
Accarezzò nuovamente la pancia e questa volta provò a fare il contrario: tirò dentro il fiato e raddrizzò virilmente le spalle.
Adesso era molto meglio. Ciò che vedeva si avvicinava molto di più all'immagine di se stesso che conservava nella mente e soprattutto all'aspetto fisico che aveva davvero quando andava in palestra. Palestra che aveva frequentato per anni. Dall'ultima volta saranno passati al massimo un paio d'anni: poteva recuperare.
La pancia brontolò, per tutto quel gonfiarsi e sgonfiarsi e fare antipatici paragoni. Francesco decise di andare in bagno e di cercare di espellere dal proprio corpo tutto ciò che di liquido e solido lo stava inutilmente opprimendo.
L'operazione non diede grandi risultati: sembrava tutto bloccato come per un eccesso di compressione.
Tornò nella sua stanza con l'umore più cupo di prima. Con meno indulgenza si controllò di nuovo.
In rapida successione provò amarezza, senso di colpa e di ribellione. Decise che era il momento di mettere fine a tanto disfacimento fisico e che doveva fare subito qualcosa, per far sparire o comunque ridurre sensibilmente la pancia gonfia di porcherie.
Si infilò una maglietta e una tuta sportiva e scese in cortile a mettere in moto la macchina. Aveva deciso di allenarsi come faceva un tempo, così raggiunse la scalinata alle spalle della basilica di Santissimi Pietro e Paolo, all'Eur.
I parcheggi erano vuoti e Francesco sistemò la macchina vicino alla base della scalinata. Si trattava di 96 gradini ignorati da molti, in quanto l'attenzione di tutti era rivolta alla lunga scalea monumentale che si estendeva di fronte alla facciata della basilica, di fronte e sopra a viale Europa.
Il freddo gli stava entrando nelle ossa, per cui Francesco non perse altro tempo: affrontò i gradini uno per volta, e sbuffando e sudando arrivò fino in cima.
Poiché ci arrivò sentendosi in buone condizioni di fiato e di gambe, si senti rassicurato. In fondo quei gradini una volta li saliva due per volta, con molto più impegno di cuore e di muscoli, per cui gli sembrò di poter continuare. Il tempo che spendeva per riscendere la scalinata serviva a recuperare le forze. Con braccia e gambe sciolte, poteva ricaricarsi per affrontare una nuova salita.
Anche la seconda volta arrivò fino alla cima con abbastanza fiato e pochi dolori alle gambe. Il cuore gli batteva forte, però, e la pancia continuava a dargli fastidio. Aveva la sensazione che a furia di ballare in alto e in basso, parte del cibo ancora dentro cercasse di risalire su.
Scese di nuovo e stavolta si tolse la felpa e la lasciò per terra. Stava iniziando a sudare abbastanza e tenendo addosso solo la maglietta pensava di respirare e di muoversi meglio. Con meno impicci e lacci avrebbe reso più agevole ogni salita.
Questa volta arrivò alla cima sentendosi un po' strano. Il cuore batteva molto e il sudore gli si stava freddando addosso. Aveva il respiro così accelerato che dovette riscendere con molta cautela. Sentiva che stava per sentirsi male e doveva prendere una decisione.
Si rimise la felpa, raggiunse la sua automobile e si sedette ad ascoltare i segnali mandati dal suo corpo.
I battiti acceleravano e aveva l'impressione che avrebbe potuto svenire. Si sentiva però molto lucido, per cui si convinse che aveva tempo per scegliere il posto migliore dove avere la crisi.

(... continua)

Racconto pubblicato nella raccolta di autori vari "Quando la pelle non ci separava", collana Perrone Lab (Giulio Perrone Editore).

sabato 8 maggio 2010

In nomine rock


Osvaldo Di Persio impazzì il 3 febbraio 2010, a partire dalle dieci e dieci minuti di sera, quando ascoltò alla radio il brano “Male di miele” degli After Hours.
Impazzì a partire dalle dieci e dieci perchè non è che sbroccò di colpo, tipo: “Ah. Ho sentito la musica degli After Hours e sono diventato matto”, ma perchè da quel momento cominciò a non essere più normale.
Il fatto è che pensò: “Come è possibile? Questi qui cantano musica rock in italiano. E suonano duro come i Led Zeppelin e i Deep Purple. Neanche il Banco del Mutuo Soccorso e la Premiata Forneria Marconi suonavano così. E sono passati decenni, da quegli anni.”
Sono passati decenni. Provò il bisogno di appoggiarsi a qualcosa, di fronte a questa banalità.
C'era una volta in cui sapeva tutto, dei Led Zeppelin. Il loro primo album, per esempio, intitolato semplicemente “Led Zeppelin”, uscì nel 1969. Ossia più di quattro decenni fa. Il fuoco che nella mitica copertina bruciava un mastodontico dirigibile, incendiò immediatamente anche gran parte della sua anima. Al punto che con l'uscita del secondo album, a fine '69, prese vita anche il suo secondo nome, il nome più vero, col quale Osvaldo venne chiamato per tutti gli anni settanta e ottanta, da tutti gli amici.
Ora come ora, invece, il signor Di Persio era tagliato fuori dalla musica rock. Non sapeva niente di niente dei gruppi rock italiani attuali. Non conosceva gli After Hours, i Subsonica, i Verdena, i Bud Spencer Blues Explosion e compagnia bella. Da quando era Amministratore Unico di un'insulsa piccola società di servizi, ascoltava soltanto la radio installata nella sua claustrofobica BMW serie 1, perennemente sintonizzata su reti commerciali, per cui era assolutamente all'oscuro di quanto avveniva nel mondo musicale più alternativo.
Lui apparteneva all'era dei Led Zeppelin e dei Deep Purple; si ricordava dei Metallica e degli AC/DC. Lui - così, di colpo - per colpa di quei poppanti degli After Hours, risprofondò nella tempesta ormonica della musica assassina che ascoltava quando a sua volta era un poppante, di un metro e ottanta di altezza e 105 chili di peso.

(... continua)

Racconto pubblicato nella raccolta "Scantinati per meduse e fiori di cristallo", dedicata alla follia, di Giulio Perrone Editore, www.perronelab.it.

Facezie - 03

L’amore è un sentimento bellissimo che ogni uomo dovrebbe avere il sacrosanto diritto di provare.
Per questo le escort della nostra ditta fanno sconti per comitive.

Non si fa così


Lorenzo entrò nel bar col passo un po’ svogliato di chi vuol far vedere di essere stanco, magari per via di un fantomatico lavoro, e prese uno dei giornali gratuiti che si trovavano su un tavolino.
«Ohi, mister Lorenzo. Ben svegliato», disse l’uomo che era alla cassa degli scontrini. Lorenzo, che stava i titoli in prima pagina, non rispose.
«Va tutto bene, mister?», insistette l’uomo. «Come vanno le cose?»
Lorenzo amava le pause. Avvicinandosi al bancone delle consumazioni, si limitò a dire: «Una favola», senza girarsi.
«Ho capito. E’ una di quelle giornate no», concluse l’uomo alla cassa, ammiccando a un altro uomo.
L'altro uomo stava pulendo il lungo bancone di finto marmo con un panno avana di finta renna. Guardò Lorenzo con l’aria paziente di chi è abituato a gente di ogni tipo e quando arrivò al bancone gli chiese: «Ci vogliamo tirare su con un caffè bello forte?»
Lorenzo fece una smorfia. «No, meglio un cappuccino.» Pausa. «Con un cornetto caldo.» Pausa. «Come ce li hai?»
L’uomo del bancone si spostò verso la zona dolciumi. «Di tutti i tipi. Semplici, con la cioccolata, la crema oppure la marmellata.»
Lorenzo assunse un’aria sospettosa. «Marmellata di che?»
L’uomo voltò uno dei cornetti per dargli un’occhiata più professionale. «Penso di ciliegia. Oppure di fragola, può darsi.»
L'aria sospettosa di Lorenzo non scomparve. «Dammelo con la crema. Preferisco», concluse, e degnò di un'occhiata scettica la parte destra del locale.
Da quella parte c’erano i tavolini per sedersi: seduti a consumare, in quel momento, soltanto tre persone. Amici di Lorenzo, perché gli fecero cenno di avvicinarsi.
«Adesso vengo», assicurò Lorenzo, muovendo senza fretta un braccio in segno di conferma. Intanto però prese il cornetto che gli porgeva l’uomo del banco e gli diede un morso di controllo, a cui seguì una nuova pausa.
Le pause erano importanti, perché Lorenzo era un tipo riflessivo. Quegli intervalli di valutazione tra un morso e l'altro, gli servivano per percepire il mondo e per prendere coscienza di se stesso. O forse del cornetto. Insomma, dell'interazione tra se stesso e il cibo che mangiava. Per cui con grande calma filosofica diede un secondo morso al suo cornetto, quindi indicò all'uomo del bancone il tavolo degli amici e disse: «Mi porti il cappuccino lì, per favore, e anche un altro cornetto come questo.»
Quando Lorenzo fu finalmente seduto davanti a lui, con l'ultimo pezzo del primo cornetto in mano, l'amico più basso commentò: «Ce l’hai fatta, a venire.»
Pausa.
«Pensavo che eri finito sotto a una macchina», osservò invece l'amico di mezzo, facendo sorridere gli altri. Lorenzo però finì di mangiare il cornetto senza scomporsi.
«Oh: c'è chi c'è morto, ad aspettare una risposta», sbottò di nuovo l'amico più basso.
Lorenzo scacciò l’aria con una mano. «Lasciatemi stare, che stamattina è stata una levataccia», disse.
L'amico più alto si stupì. ««Te? Una levataccia? E’ quasi mezzogiorno: che levataccia hai fatto? Per fare una levataccia, allora stai parlando di sette ore fa.»
«Ma che sette ore fa! E’ alle dieci di stamattina, che mi sono venuti a rompere i coglioni», scattò Lorenzo, con un'energia inaspettata.
I suoi tre amici, presi alla sprovvista, si presero cinque secondi di silenzio e di riflessione.
«Le dieci di mattina non fanno parte della categoria delle levatacce», osservò con un pizzico di perfidia l'amico più basso.
«Per te che vai a dormire prima di mia nonna», lo fulminò Lorenzo, ancora più irritato, dopodiché osservò il cameriere che gli portava il secondo cornetto col cappuccino, e rifletté ad alta voce: «Che cazzo campi a fare, vorrei sapere.»
L’amico di mezzo e quello più alto si misero a ridere, per via della parolaccia, e il cameriere posò un vassoio davanti a Lorenzo.

(... continua)

Racconto pubblicato da Giulio Perrone Editore nella raccolta "Al bar".