domenica 27 febbraio 2011

CINQUE MINUTI


E’ la tranquillità che dà valore e dignità all’esistenza di una persona.
Fare le cose tenendo conto di tutto il tempo che può servire - il tempo logico più il tempo illogico determinato dalle possibili avversità - fa sì che mentre gli altri che si sbranano su strade asfaltate e strisce pedonali scolorite, perennemente in ritardo, io possa scuotere la testa, in mezzo al traffico e al caos primordiale, con serena e benevola compassione.
Di questa indulgenza mi sentivo ricco, alle 18 e 4 minuti del 24 maggio 1999, dopo aver trovato parcheggio a tre minuti di distanza dalla mia agenzia assicurativa di Largo Pannonia. Il tempo mite, il cielo sereno, la luce del sole e l'aspettativa di una cena piacevole, che avrei passato in buona compagnia, mi rendevano ricco. Ricco di un’indulgenza pericolosa.
«Scusi, che mi potrebbe fare un piccolo piacere?», mi chiede un’anziana signora.
In realtà, io non ho capito che cosa ha detto. Abito a Roma, dove si viene fermati in continuazione da persone che chiedono quattrini, quindi in realtà ho sentito qualcosa come: «Scusi, che mi potrebbe dare qualcosa, per piacere?»
Di conseguenza sorrido, non interrompo il passo e meccanicamente dico: «No, mi dispiace.»
«E’ che co’ ‘ste gambe non riesco proprio a camminare», continua la signora, e realizzo che è molto bassa, anziana, con le gambe grosse e pesanti e che si trova in evidente difficoltà. Così mi viene in mente mia nonna che è morta da parecchi anni (è sempre stata robusta e attiva fino all'ultimo respiro, contrariamente a questa, però mi viene in mente lo stesso) e comprendo che ha detto: «Scusi, che mi potrebbe fare un piccolo piacere?»
Guardo la porta dell’agenzia assicurativa a pochi metri di distanza, consulto l’orologio che segna le 18 e 5 minuti, penso che ho 25 minuti a disposizione e faccio l'errore di chiedere, per scrupolo: «Cosa è successo? Le serve aiuto?».
«Che mi può accompagnare dal medico, qua dietro? Ci ho appuntamento adesso, che mi deve visitare, ma co’ ‘ste gambe non riesco a camminare.»
In effetti dondola sul posto, incapace di andare avanti e indietro, in cerca di un appoggio che non trova. Alla fine della frase la sua voce prende anche una intonazione lamentosa, quasi di pianto privo di speranze, e con un fazzoletto di cotone si deterge maldestramente il viso, forse per via di una lacrima iniziale.
«Mi dispiace, ma devo pagare l’assicurazione», sono costretto a dire. «Altrimenti mi chiude e non faccio in tempo.»
Lei mi guarda come se avessi detto una cosa poca ragionevole e mi chiede: «Ma lei ce l’ha la macchina?»
«Sì, ce l'ho, ma l'ho parcheggiata un po' lontano. Ci metto troppo ad andare a prenderla… Poi non faccio in tempo a pagare l’assicurazione.»
«Ma se si sbriga, prende la macchina e in cinque minuti abbiamo fatto. Lo studio medico sta proprio qui dietro, non ci vuole niente.» Indica lo spazio cosmico con vago movimento del dito. «Ci devo andare perché il medico mi deve fare le analisi e riceve solo il lunedì. Se non ci vado come faccio? Questo è convenzionato, non posso andare da un altro.» La sua voce comincia nuovamente ad incrinarsi. «E’ che devo fare questa cura pe' le gambe, che non riesco proprio a camminare più.»
Discutere richiede troppo tempo, la signora è anziana e ragiona in modo anziano, per cui decido di tagliare corto. «Va bene, vado a prendere la macchina. Lei non si muova e mi aspetti qui.»
«Si sbrighi», sento, mentre mi affretto a tornare dove ho parcheggiato, e immediatamente mi pento di aver deciso di darle una mano.
Si sbrighi? Cosa voleva dire quel si sbrighi? Porca pupazza, mi sbrigo sì, che mi sbrigo, ma solo perché devo pagare la mia assicurazione! Anzi, mi faccio una corsetta pure.
Quanto ci avrò messo? Meno di un minuto? Salgo in macchina con un leggero affanno e metto in moto. Esco di retromarcia dal parcheggio, facendo appena una sgommatina. Prima, seconda e un pizzico di terza marcia; fermo di fianco al marciapiede, proprio di fronte all’agenzia.
La vecchina dalle gambe gonfie è rimasta esattamente dove si trovava, tra me e l’ingresso della mia assicurazione. Scendo dall’Opel Corsa determinato a sistemare in fretta la faccenda.
«Venga, l’aiuto a salire in macchina», dico, mentre le apro la portiera di destra. «Ce la fa a salire da sola?»
«Sì, sì. Un momento», afferma. Sale sull’automobile con qualche contorsione e parecchi aggiustamenti, però sale.
Quando si è sistemata chiudo lo sportello dicendole: «Attenzione che chiudo», quindi raggiungo il lato sinistro e mi siedo al posto di comando.
«Allora, me lo dice lei, dov’è che devo andare», puntualizzo, sistemando la cintura di sicurezza con efficienza e determinazione.
Lei annuisce e punta il braccio destro verso il parabrezza. «Sì. Deve girare a destra proprio in quella strada, lì di fronte, e dopo a destra di nuovo. E’ proprio qui dietro, in via Gallia. Cinque minuti.»
Cinque minuti. Siamo sul filo delle 18 e 15 minuti, penso, e imbocco la prima stradina a destra, a senso unico, per ritrovarmi subito, effettivamente, nella più grande e trafficata via Gallia.
«Ecco, un po’ più avanti… Dove sono quei secchioni della spazzatura», mi guida la vecchina. «Sì, un po’ più avanti. Lo vede quel portone? E’ lo studio medico. Io abito vicino, qui dietro. Lei accosti qui, che è più vicino al marciapiede, così mi aiuta a scendere. Che io, co’ ‘ste gambe rovinate, da sola non ce la faccio proprio.»
Accosto tra il cassettone della spazzatura e una vettura parcheggiata, quanto basta per poter aprire lo sportello di destra e farla scendere senza problemi, quindi scendo velocemente per darle una mano.
«Ecco, sì, bravo. Mi aiuti col braccio», dice la signora, aggrappandosi al mio braccio e tirandosi fuori con fatica. «Basta che mi accompagna fino al portone, poi c’è il portiere, lo vede? Mi ci porta lui allo studio medico. Il dottore mi guarda le analisi e me ne posso andare. Così lei mi viene a prendere e mi riaccompagna a casa.»
Stiamo facendo il piccolo tragitto dalla mia macchina al portone dello studio medico a passettini incerti e progressivi. Io ascolto l’espressione assurda, “Mi viene a prendere e mi riaccompagna a casa”, e guardo il portiere che ci sta fissando, cercando di calcolare quanti minuti mi sono rimasti a disposizione.
«Non posso venire a riprenderla», obietto. «Ho appuntamento con una signora alla metropolitana di San Paolo e non posso farla aspettare.»
«Ma abito qui dietro, proprio qui vicino! Io co’ ‘ste gambe non ce la faccio a torna' da sola. Co’ la macchina sua ci vogliono cinque minuti solamente... Quando il medico ha finito, l’aspetto qui, insieme al portiere, così mi riaccompagna a casa lei.»
Adesso stiamo proprio esagerando, penso, mentre nella mia testa ho la rappresentazione mentale di una lancetta dei secondi che continua a girare inesorabilmente. Abbiamo raggiunto il portiere e dico alla signora: «Va bene, se posso vengo a riprenderla e la riporto a casa.» Mentre al portiere spiego: «Senta, questa signora dice che ha un appuntamento allo studio medico. La può accompagnare lei dentro, per favore? Io le ho dato un passaggio, ma adesso devo proprio andare via.»
Il portiere annuisce dicendo che va bene, mentre la vecchina lo saluta con una certa familiarità e spiega che io sono una persona tanto per bene. Non ho altro tempo e mi sbrigo a salire in auto, però mentre apro lo sportello sento lei che dice: «Allora io l’aspetto qui, eh?»
“Sì. Aspetta, aspetta”, penso, con un bel po’ di sarcasmo e di risentimento più che giustificato, ma le sorrido e annuisco in modo rassicurante. Mi ributto nella strada fortunatamente poco trafficata, con l’orologio che segna le 18 e 18 minuti.
Giro alla prima a destra e dopo una viuzza scema giro di nuovo a destra. Sono di nuovo nella piazza in cui si trova l’assicurazione - grazie a tutti i santi e al Signore - e un po’ più avanti trovo persino un posto dove parcheggiare.
Mentre entro nell’agenzia assicurativa, un orologio appeso alla parete più larga dello stanzone sta per segnare le 18 e 22.

Fatto. Finito. L’impiegato ha trovato sul computer la mia pratica, ha stampato il bollettino assicurativo, si è preso l’assegno e io sono fuori, al sole dei meritevoli, alle 18 e 26 minuti. Persino l’aria sembra più pulita di com’era prima.
Bene, ora si tratta di andare alla stazione di San Paolo, da Gina, che mi aspetta per le sette del pomeriggio.
Chissà che fine ha fatto la vecchina, mi viene da pensare, mentre raggiungo con passo disinvolto la mia fidata mobìl. Magari adesso sta per uscire dallo studio del dottore (e apro lo sportello). Oppure è uscita e mi aspetta insieme a quel portiere (e metto nervosamente in moto).
E’ uscita ed è rimasta sola (la macchina si muove). E’ uscita, è sola, si guarda intorno, non ci vede bene, cerca un appoggio zoppicando e sono soltanto le 18 e 33.
«E’ ancora presto», dico all’abitacolo circostante, per giustificare il fatto che invece di andare verso San Paolo sto andando verso lo studio medico convenzionato. Tanto, per andare alla stazione ci vorrà sì e no un quarto d’ora, penso, e Gina, poi, non è mai stata puntuale in vita sua.
Rieccola: la sensazione che ci sia improvvisamente troppo traffico, che le vetture si muovano troppo poco, che ci sia un semaforo scassato, da qualche parte, o qualche altra cosa che non funziona.
Dai, dai, muoviamoci! Adrenalina, irritazione, molta impazienza e desiderio di pena capitale per i più lenti. Il tempo si materializza in una successione interminabile di striscette bianche, disegnate con colla appiccicosa sull'asfalto ostile.
Ecco lo studio medico. Sul marciapiede non si vede nessuno. Cioè c’è gente, ma non la mia vecchina. D’altronde con i miei occhiali un po' appannati, non è che ci veda proprio bene.
Accosto e scendo. Il portiere di prima sta trafficando con un citofono che probabilmente si è scassato.
«Mi scusi», chiedo. «Per caso ha visto una signora anziana che...»
«Sto qua, sto qua», mi informano alle mie spalle.
E’ la vecchina, che si era messa un po’ in disparte, nascosta alla mia vista da chissà che cosa.
«Grazie, l’ho trovata», comunico al portiere. Invece alla signora dico: «Eccomi, sono venuto a prenderla», notando che lei sta alzando un dito in modo inquisitorio.
«Se ne voleva andare via, eh? Non voleva venire più!», mi accusa, prendendomi completamente alla sprovvista.
Arrossisco leggermente e mi sento offeso. «Ho finito all’assicurazione e sono venuto a prenderla», chiarisco, ma lei annuisce con l’evidente espressione di chi pensa: “Sì, come no.”
Comunque chiede: «La macchina dov’è?», e io rispondo: «Eccola.»
L’accompagno a passettini ini-ini fino allo sportello, per farla rimontare sopra.
«Allora, mi ha detto che la casa è qui vicino», le ricordo, mentre rimetto in moto.
«Sì, sì, sta qui dietro, glielo dico io. Lei vada avanti. Ecco. Deve girare a destra, a via Licia. Sì, qui, si accosti. Ecco. Deve citofonare al signor Finetti, a quel portone lì.»
Ho accostato e mi aspetto che lei scenda. Perché devo citofonare a quel portone lì?
Le chiedo: «Ma deve scendere a prenderla qualcuno? Lei abita lì?»
Scuote la testa e mi guarda con attenzione. «No, lì ci abita il signor Finetti, che è una persona tanto distinta, che lavora in banca, sa? Gli deve dire che è venuto a prendere la busta dell’olio e della camomilla...», e qui nella sua voce torna quell’intonazione piagnucolosa che mi aveva già colpito prima. «Che so’ rimasta senza un goccio d’olio a casa e senza camomilla. Che come faccio a prende’ sonno, co’ ste’ gambe che me danno così fastidio!»
«Ma scusi, io ho un appuntamento con una signora, che mica posso lasciare da sola alla stazione!», mi ribello, decisamente risentito per quella che sta diventando una fastidiosa situazione. «Lei mi ha detto che dovevo accompagnarla a casa. Dov’è questa casa, per piacere, così l’accompagno e posso andare via?»
«Sta qui vicino, a cinque minuti. Co’ la macchina non ci vuole niente. Io come faccio, a piedi, a portare la busta col boccione pesante dell’olio? Che ci ho ‘ste gambe che me fanno male e che pe’ camminà è una tribbolazione.»
E che cazzo! - penso, poco educatamente, ricordando però che la parola “tribolazione” veniva usata anche da mia nonna, quando voleva sottolineare il fatto che fare una determinata cosa costava veramente delle pene esagerate.
Tagliamo corto.
«Va be’. A chi devo citofonare, ha detto?», chiedo. Come d’incanto, la sua voce smette all’istante di piagnucolare.
«Al signor Finetti. Gli dica di portare giù la busta della signora Erminia. E’ tanto distinto e lavora in banca. Su, vada, vada.”
Ma guarda che roba! Mi dice pure “vada, vada”!
Raggiungo il portone del palazzo e comincio a scorrere la lista dei nominativi sul citofono argentato.
Finetti, ha detto.
Suono ad un certo Amilcare Finetti.
«Sì?», dice una voce flebile.
«Senta, mi scusi, sono con una signora che mi ha detto che dovrebbe portare giù una sua busta... Una busta con una bottiglia d’olio.»
«Sì, la signora Erminia.»
«Sì. Può scendere è portarla giù, per favore? Io l’aspetto qui, sul portone.»
Il signor Finetti ha un momento di netta esitazione.
«Ma io non sono presentabile», mi spiega. «Sono in pantofole. Non posso scendere per strada con le pantofole.»
Questi due sono dei criminali, penso in un lampo. Sono d’accordo, si tratta di una trappola, mi fanno salire in casa e mi rapinano di tutti i soldi e dei vestiti.
«Senta, io nemmeno la conosco, la signora. La sto accompagnando a casa per farle un piacere, ma non la conosco. Mi ha chiesto di citofonarle perché le serve la busta dell’olio e per favore la deve portare giù lei, perché io ho anche un appuntamento con una persona che mi sta aspettando da diverso tempo, e non pensavo proprio di dover fare tutti questi giri!»
Breve silenzio di riflessione da parte del signor Finetti, infine dal citofono si sente: «Va bene, allora scendo in pantofole. Mi dia un momento solo.»
E se fossero davvero degli imbroglioni? Guardo verso la mia macchina: lo sportello di destra è leggermente aperto perché la vecchina vuole fare entrare dentro l’aria, oppure per non farmi andare via?
Telefono a Gina, intanto. Devo avvertirla di che cosa sta accadendo (anche come eventuale testimone di un possibile misfatto) e che potrei tardare di parecchio.
«Pronto, Gina? Senti, mi sta capitando una cosa abbastanza strana. Ho dato un passaggio a una vecchietta, che era in difficoltà, e ora mi sta praticamente tenendo in ostaggio. ... Sì, sto aspettando un tizio che gli deve dare una busta con dentro dell’olio e poi dovrei portarla a casa. ... Sì, dice che abita qui vicino, io spero, poi vengo subito da te, a San Paolo. Tu hai la macchina? ... Va bene, scusami per questo contrattempo. ... Sì, poi ti racconto. Aspettami in macchina, io cerco di sbrigarmi prima che posso.»
La serratura elettrica del portone d’ingresso scatta e si affaccia un signore bassino e paffuto, con gli occhialetti tondi e l’aria remissiva. Porta tra le braccia una busta di plastica, a cui ha fatto un vistoso nodo.
«Il signor Finetti?», chiedo. Lui annuisce, mi guarda un po’ perplesso e dice: «Ho portato la busta con l’olio e un po’ di odori. Dov’è la signora Erminia?»
«La signora è lì, nella mia macchina. Anzi, per favore, se ci vuole parlare lei...»
Guarda senza entusiasmo verso l’Opel Corsa e alza un po’ le sopracciglia in segno di delusione. «Ma io sono in pantofole», ribadisce. «Non posso camminare sulla strada.»
Un altro anziano, non ancora anziano, che però ragiona da anziano.
«Abbia pazienza», spiego, «come le ho detto, io la signora non la conosco nemmeno. Prima l’ho accompagnata dal medico, perché non poteva camminare da sola, e adesso la stavo accompagnando a casa sua. Solo che mi ha detto di citofonarle e sono bloccato qui mentre mi aspetta una persona. Ci parli lei, per favore. Le dia la busta e le spieghi che io la devo riportare a casa subito, perché si sta facendo tardi... Per favore, venga un momento fino alla macchina e glielo spieghi lei.»
Assimila a fatica e annuisce senza spostare nessun accessorio della sua faccia inespressiva. «Va bene», dice, forse con un leggero sospiro di rassegnazione.
A passettini un po’ più lunghi di quelli a cui mi ha abituato la vecchina, raggiungiamo finalmente lo sportello destro della mia vettura. Lei gira il capo per vedere chi è arrivato, e i due anziani di spirito e di corpo si scambiano collaudate frase di saluto.
«Signora Erminia, buonasera. Come sta?», dice il signore non ancora anziano.
«Signor Finetti! Buonasera, scusi se l’ho fatta incomodare», dice invece la signora veramente anziana. «Il signor Finetti lavora in una banca, sa?», mi ripete, soddisfatta, al che il bancario le sorride leggermente, sollevando la busta chiusa con il grosso nodo. «Le ho portato l’olio e gli odori», dice, passando la busta di plastica dalle sue mani a quelle della vecchina, e lei gli chiede se dentro c’è anche la camomilla che le serve tanto per dormire.
(... segue)

Estratto dalla raccolta "La gente è strana", Edizioni Simple.

LA GENTE E' STRANA


Storie di peccatori più o meno capitali.

Venticinque, forse ventisei racconti brevi e brevissimi con gente piuttosto strana.

Assassini diabolici, vecchiette insidiose, attori vendicativi, innamorati poco convinti, guidatori frustrati, amanti dei numeri e degli animali, sportivi confusi e persino cacciatori di vampiri.

I personaggi ideali per lettori che amano le sorprese.
Piacevoli o spiacevoli che siano.

Edizioni Simple. ISBN 978-88-6259-287-1