domenica 23 gennaio 2011

Un lavoro stressante


Guardo Mario interrogativamente. Devo continuare?
Lui ci pensa un po’ su, mentre il povero stronzo rantola, per terra.
«Dà qua», mi dice, indicando la mia mazzetta da lavoro. Strano, non capita mai.
Mario soppesa la mazzetta, riflette un altro po’ e colpisce deciso la testa del povero stronzo, crac.
Non va bene, penso; non va bene per niente.
«Mah. Mi credevo meglio», dice Mario, buttando via la mazzetta per terra e uscendo fuori dal retrobottega.
«Pensaci tu, a dare una ripulita», aggiunge. Uno degli Altri abbozza un sorriso.
Non va per niente bene; non avevamo mai ammazzato nessuno, prima, e ci metterò un sacco di tempo a dare una pulita.
Il liquido che viene da sotto la testa spaccata raggiunge della frutta caduta per terra e la circonda. Esco dal retrobottega anche io, entro nella frutteria vera e propria, passo sotto la saracinesca alzata di un metro e poi la riabbasso del tutto. Devo andare a cercare un sacco adatto per il povero stronzo e della segatura.
Quando ritorno al negozio, dopo un’oretta, ritiro in po’ su la saracinesca, accendo la torcia portatile e abbasso la saracinesca di nuovo.
Il povero stronzo è buono al suo posto, il liquido ha fatto una pozza, un motorino con la marmitta sfondata fa rumore di fuori e a me mi rode. Un conto è rompere qualche osso e un altro far fuori un cristiano. Se questo stronzo avesse evitato di fare il furbo…
Gli tiro un calcio in testa, per il nervoso, e l’occhio sinistro rotola, fuori dal cranio.
Cazzo: la cosa è disgustosa. La piccola palla rotola fin troppo a lungo, si ferma dov’è la pozza e dov’è la frutta, rivolge la retina verso il mio sguardo e resta là a fissarmi, tra un paio di mele guaste e dei limoni.
Chissà perché ha assunto una tinta giallo sporcizia, identica a quella dei limoni che gli sono accanto. Non può trattarsi di un occhio vero, sarà di vetro finto; insomma sarà una protesi posticcia, di cui non ci siamo accorti prima. In ogni caso non intendo verificare. Raccatto tutto e metto tutto insieme: frutta, frattaglie e il corpo del povero stronzo. Quando ritorno a casa - a notte fonda - non dormo bene, però.
Questo lavoro è sempre più stressante. Ci vorrebbe una settimana a Tagliacozzo.
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Accendo la luce in cucina, il braccio pronto a posare la spesa sul tavolo, a un paio di metri, e il suo odio è come uno schiaffo terribile in pieno viso, da togliere il fiato.
Lo percepisco come disprezzo assoluto, di un giallo spettrale, malato. Sembra che brilli di un battito fosforescente. Vivo.
Il limone posato sul tavolo mi odia.
Mi rendo conto che sto pensando una cosa priva di senso, davvero ridicola; ma l’odio che mi assale è così… reale; lo sento bene, che viene tutto da quel limone.
Calmo. Respiro e poi… Calmo.
Come è possibile che io stia pensando una cosa del genere? Come è possibile che, anche solo per un momento, io possa concepire una cosa così?
Fisso il limone, l’unico oggetto presente sopra il tavolo vuoto, e quello emana qualcosa di lurido, sia nella luce che nell’odore. In qualche malefico modo ricambia il mio sguardo. Forse è per colpa del neon, che tremola a tratti e illumina male; che gli disegna ombre di vita e di morte sulla superficie rugosa; che sembra farlo pulsare, come un cuore di carne, gonfio di odio e furore.
Emana terribili pensieri. Li sento.
Arretro lentamente, senza staccare gli occhi dal suo alone giallastro. Sono sicuro che potrebbe spiccare un balzo, con braccia e gambe nascoste dietro il corpo schifoso, e aprirsi come una tagliola, e strapparmi via la faccia a morsi.
Arretro lentamente e chiudo con la mano destra, che mi trema, due volte la porta a chiave.
Cazzo, il cuore mi esce fuori dal torace. Mi preme sulle costole è fa distintamente tum, tum, tum.
Riprendo il fiato con rumore, per sentire uno straccio di suono umano. Se mi vedessero gli Altri, la mia reputazione sarebbe finita. Non è concepibile crollare a causa di un stupido frutto.
La colpa da dare a qualcuno che ha sbagliato. La colpa è della donna delle pulizie.
Deve essere stata quella stronza di Olga, a lasciarlo lì, dopo aver pulito la cucina. Il limone doveva far parte dei suoi stupidi acquisti, e lei per sbaglio l’ha dimenticato lì.
Maledetta incapace: lo sa che non voglio niente di vivo dentro il mio frigorifero e nella cucina! E che la tavola deve essere libera, vuota, pulita, disinfettata con l’alcool. Avrò ripetuto queste istruzioni un milione di volte.
E’ una fortuna che abbia potuto chiudere il mostro a chiave. Appoggio una poltrona alla porta, per più sicurezza, e chiudo a chiave anche la porta del corridoio e quella della mia stanza. Ha nove porte bianche e pulite, il mio appartamento. Ho nove chiavi per chiudere tutto come si deve.

(... segue)

Estratto dal racconto di andrea Bellizzi "Un racconto stressante", pubblicato da PerroneLab Editore nell'antologia di autori vari "ero una crepa nel muro".