
NON SI FA COSI'
Lorenzo entrò nel bar col passo un po’ svogliato di chi vuol far vedere di essere stanco, magari per via di un fantomatico lavoro, e prese uno dei giornali gratuiti che si trovavano su un tavolino.
«Ohi, mister Lorenzo. Ben svegliato», disse l’uomo che era alla cassa degli scontrini. Lorenzo, che stava leggendo i titoli in prima pagina, non gli rispose.
«Va tutto bene, mister?», insistette l’uomo. «Come vanno le cose?»
Lorenzo amava le pause. Avvicinandosi al bancone delle consumazioni, si limitò a dire: «Una favola», senza girarsi.
«Ho capito. E’ una di quelle giornate no», concluse l’uomo alla cassa, ammiccando a un altro uomo.
L'altro uomo stava pulendo con un panno avana di finta renna il lungo bancone di finto marmo in cui si servivano le consumazioni. Guardò Lorenzo con la pazienza di chi è abituato a trattare con gente di ogni genere e propose: «Ci vogliamo tirare su con un caffè bello forte?»
Lorenzo fece una smorfia. «No, meglio un cappuccino.» Pausa. «Con un cornetto caldo.» Pausa. «Come ce l’hai?»
L’uomo del bancone si spostò verso la zona dolciumi. «Di tutti i tipi. Semplice, con la cioccolata, la crema oppure la marmellata.»
Lorenzo assunse un’aria sospettosa. «Marmellata di che?»
L’uomo voltò uno dei cornetti per controllare. «Penso ciliegia.»
L'aria sospettosa di Lorenzo non scomparve. «Dammelo con la crema. Preferisco», concluse, e buttò un'occhiata scettica sulla parte destra del locale.
Da quella parte c’erano i tavolini per sedersi. Sedute a consumare, in quel momento, soltanto tre persone. Amici di Lorenzo, sicuramente, perché gli fecero cenno di avvicinarsi.
«Adesso vengo», assicurò Lorenzo, muovendo senza fretta un braccio in segno di conferma. Intanto però prese il cornetto che gli porgeva l’uomo del banco e gli diede un morso, a cui seguì una nuova pausa di valutazione.
Le pause erano importanti, per Lorenzo, perchè questi intervalli gli servivano per percepire il mondo e per avere coscienza di se stesso. O forse dei cornetti. Insomma, in questo caso dell'interazione tra se stesso e il cibo che mangiava. Per cui con calma diede un secondo morso al suo cornetto, quindi indicò all'uomo del bancone il tavolo degli amici e disse: «Mi porti il cappuccino lì, per favore, e anche un altro cornetto come questo.»
Quando Lorenzo fu finalmente seduto davanti a lui, con l'ultimo pezzo del primo cornetto in mano, l'amico più basso commentò: «Ce l’hai fatta, a venire.»
Pausa.
«Pensavo che eri finito sotto a una macchina», osservò invece l'amico di mezzo, facendo sorridere gli altri due.
Lorenzo finì di mangiare il cornetto senza scomporsi.
«Oh: c'è chi c'è morto, ad aspettare una risposta», sbottò di nuovo l'amico più basso.
Lorenzo scacciò l’aria con una mano. «Lasciatemi stare, che stamattina è stata una levataccia», disse.
L'amico più alto si stupì. ««Te? Una levataccia? E’ quasi mezzogiorno: che levataccia hai fatto? Per fare una levataccia, allora stai parlando di sette ore fa.»
«Ma che sette ore fa! E’ alle dieci di stamattina, che mi sono venuti a rompere i coglioni», scattò Lorenzo, con un'energia inaspettata.
I suoi tre amici, presi alla sprovvista, si presero cinque secondi di silenzio e di riflessione.
«Le dieci di mattina non fanno parte della categoria delle levatacce», osservò con un pizzico di perfidia l'amico più basso.
«Per te che vai a dormire prima di mia nonna», lo fulminò Lorenzo, ancora più irritato, dopodiché guardò il cameriere che si avvicinava per portargli il secondo cornetto col cappuccino e continuò ad alta voce: «Che cazzo campi a fare, vorrei sapere.»
L’amico di mezzo e quello più alto si misero a ridere e il cameriere posò un vassoio davanti a Lorenzo.
«Ti verrà il diabete», disse l’amico più basso, quando Lorenzo versò nella tazzina fumante tre cucchiaini di zucchero. Lo disse per rivalersi, ma Lorenzo non gli badò per nulla.
L'amico di mezzo invece chiese: «E poi chi era, che ti è venuto a svegliare alle dieci?»
Lorenzo, che era impegnato ad asciugarsi la bocca, si limitò a scuotere la testa.
«Ma poi, scusa, tu non sei quello che non apre la porta a nessuno?», osservò l’amico più alto, che aveva buona memoria.
L’amico di mezzo si incuriosì immediatamente. «Cos’è ‘sta storia che non apre a nessuno?»
L’amico più basso colse la palla al balzo per vendicarsi. «Che, non lo sai? Lorenzo non risponde al citofono e neanche alla porta. Tu puoi suonare e bussare quanto ti pare. Lui fa finta di niente e non ti apre nemmeno se muori.»
L’amico di mezzo fece una faccia perplessa. «E perché ‘sta stronzata?», chiese.
«Per non pagare le multe», spiegò l’amico più basso, ridacchiando di gusto.
«Ma va? Davvero? Ma che davvero è così, Lorenzo?», chiese l’amico di mezzo.
Lorenzo smise di bere il suo cappuccino e assunse un’aria pensosa, cercando le parole giuste per spiegare la cosa.
«E’ che le multe io non le pago.» Pausa. «Non le pago e non intendo pagarle mai», sintetizzò.
La cosa, però, non era per niente chiara. Infatti l’amico di mezzo, che aveva bisogno di avere informazioni più chiare, insistette: «E allora? Che centra col fatto del citofono e della porta?»
Lorenzo si passò la lingua sui denti davanti, mentre si concentrava.
«Per farti pagare la multa, te la devono consegnare personalmente. Ti devono trovare e te la devono dare. Se tu non apri a nessuno, non ti possono consegnare nessun avviso di multa e nessuna notifica. Punto», spiegò.
«Va be’, ma se un amico o un parente ti vogliono venire a trovare a casa, allora che devono fare?»
«Mi chiamano sul cellulare. Mi chiamano sul cellulare e ci mettiamo d’accordo.»
Seguirono altri cinque secondi di riflessione. Lo standard temporale per ogni reazione sensata, da parte del gruppo.
«E la faccenda dell’alzataccia?», chiese di nuovo l’amico di mezzo.
«Niente, stavo dormendo tranquillo in camera mia - che ieri notte ho suonato in un pub dall’altra parte del mondo - quando sento suonare al citofono con insistenza, un sacco di volte.»
«E chi era?»
Lorenzo alzò vistosamente le spalle. «E che cazzo ne so? T'ho detto che non rispondo al citofono, io. Mi sono girato nel letto, incazzato nero, e ho aspettato che la facessero finita di suonare.» Pausa. «Magari erano dei ragazzini rompicoglioni.»
L’amico di mezzo annuì.
«Solo che passa un quarto d’ora, venti minuti, penso - io mi ero praticamente riaddormentato - e sento che suonano anche alla porta.» Pausa di riflessione più profonda. «Cazzo.»
Un’altra pausa da parte di tutti.
«E tu non hai aperto nemmeno questa volta», suggerì l’amico più alto, con un po’ di impazienza.
Lorenzo fece una smorfia scandalizzata. «Certo che no. Non apro a nessuno, t’ho detto, se non mi chiamano al cellulare.» Di nuovo pausa. «Solo che questo suonava al campanello esattamente come prima avevano suonato al mio citofono, con la stessa insistenza. Drin, drin, drin, senza piantarla. Insomma, da vero rompicoglioni.»
«Strano», si sentì in dovere di dire l’amico più alto. Anche gli altri due non poterono fare a meno di annuire.
«Mi faceva venire il sangue al cervello», chiarì Lorenzo, toccandosi la testa con un dito. «Avevo un sonno dell’accidente e questo qua suonava senza interruzione.»
«Cazzo. Ce ne sono di matti in giro!», sentì di dovere aggiungere l’amico più alto.
Lorenzo tornò pensieroso.
«Poi a un certo punto l’ha piantata, e pensavo che fosse finita là», disse. «Sembrava che mi potessi riaddormentare in santa pace e stavo lì lì per farlo, quando ho sentito muovere la porta, tric e trac.»
Stavolta si stupì anche l’amico più basso.
«Cavolo! E non ti sei alzato a vedere chi è che rompeva?», chiese.
Lorenzo ingobbì le spalle, in modo aggressivo. «Quando è troppo è troppo. Ho pensato “è quella stronza della donna che mi viene a fare le pulizie”. Una polacca russa rumena che una volta mi capisce e cinque volte no. Cazzo, gliel’ho detto e ridetto che non mi deve rompere prima di mezzogiorno e lei ci ricasca sempre. Allora mi sono alzato e sono andato a cazziarla di brutto, così ho spalancato la porta di scatto.»
Pausa, durante la quale Lorenzo cambiò l’espressione del viso, di colpo sulla difensiva.
«Solo che io abito all’ultimo piano. In quello che era un lavatoio, una volta, e poi hanno cambiato in un appartamentino.» Pausa. «Il fatto è che la mia porta di casa non si apre verso l’interno, come tutte le porte di casa, ma verso l’esterno, perché appunto era un lavatoio.»
«E allora?», lo incalzò l’amico di mezzo, a cui non fregava niente dei lavatoi.
«E allora ho dato una sportellata tremenda a un tizio che stava piegato in avanti dall’altra parte. Così quello ha fatto uno zompo in alto di un metro e mezzo ed è schizzato giù per le scale.»
(... SEGUE)
Dalla raccolta di racconti brevi di Andrea Bellizzi "La gente è strana", Edizioni Simple

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