domenica 27 marzo 2011

IL MOMENTO GIUSTO


La postazione era ottima. Una collinetta nascosta dalle sterpaglie, raggiungibile solo a piedi e con un certo sforzo, esattamente di fronte alla casa del Lavoro. Tre giorni di appostamenti, per conoscere il territorio e le abitudini del Lavoro, e adesso non restava che attendere con pazienza il suo arrivo.
Le luci della casa erano tutte spente. Guardò le lancette fosforescenti dell’orologio che segnavano le 21.05 e annuì. Il Lavoro rientrava a casa intorno alle dieci meno un quarto, quindi era ampiamente dentro i tempi di routine.
Controllò con il binocolo le finestre e il perimetro che circondava la villetta. Nessun movimento, neanche da parte del Doberman del Lavoro, che stava accucciato con la testa tra le zampe, di fronte alla porta di casa.
Bene.
Verificò il caricamento dell’arma, sistemò l’appoggio per il fucile e si sdraiò il più comodamente possibile. Tarato il mirino di precisione, ripreso il binocolo per osservare la villa, cambiò il ritmo della respirazione e attese.

A cosa pensa un esecutore mentre attende il Lavoro? Per quanto lo riguardava, al tempo che trascorreva. Cinquantatre, cinquantaquattro, cinquantacinque: in mente aveva soltanto numeri che corrispondevano a secondi.
Poi veniva la palpebra da battere, il dolorino alla spalla, la sensazione di un movimento ai margini della visuale, da verificare, la tentazione di guardare l’orologio.
L’esecutore guardò l’orologio.
21.53, un leggero ritardo, praticamente insignificante; eppure un particolare che lo irritò nel profondo. La concentrazione è un’attività faticosa, in cui il passare dei minuti equivale a un spreco di energie esponenziale.
Si sorprese a desiderare una sigaretta, ma fu soltanto un attimo. Durante l’esecuzione del Lavoro non fumava mai.
Alle 21.55 inforcò di nuovo il binocolo, cambiando due volte la messa a fuoco. I numeri si susseguivano nel cervello automaticamente, in modo monotono.
L’esecutore guardò un’altra volta l’orologio: 22.06, ventuno minuti più tardi rispetto alla media. Addebitabili a un numero infinito di possibili motivi. Un guasto meccanico, un rifornimento di carburante, una telefonata imprevista; però, a lui personalmente, piaceva la puntualità durante il lavoro. Da parte di tutti.
Pensò di nuovo alle sigarette.
Aveva provato a smettere in diversi modi, ma fino ad ora con scarsi risultati. Non più un pacchetto e mezzo di sigarette al giorno, come prima, però queste diciotto sigarette che consumava giornalmente gli sembravano ancora troppe. Era seccante il fatto di non avere abbastanza forza di volontà per smettere. Per la salute, per la spesa economica (soldi buttati) e perché chi dispone della vita e della morte degli altri dovrebbe avere un carattere più deciso, che cazzo. Per questo comunque erano diciotto sigarette e non venti.
Intanto si erano fatte le 22 e 13 minuti. Se per le 22 e 15 il Lavoro non si vedeva, avrebbe fumato una sigaretta comunque, per alleggerire la tensione.
(... segue)

Tratto dalla raccolta di Andrea Bellizzi "La gente è strana", Edizioni Simple.

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