
Se la vita fosse un film come si deve, invece di un video girato in Super 8, uscendo di casa Fernando avrebbe avuto diritto a una colonna sonora carica di inquietudine e di pericolo, per far capire che mica stava uscendo tanto per uscire. Un primo piano avrebbe inquadrato i suoi occhi carichi di preoccupazione e una bella ragazza lo avrebbe abbracciato come se fosse per l’ultima volta. Invece Fernando uscì di casa da solo, nell’indifferenza generale, con un rumore di copertoni che rotolavano e qualche clacson arrabbiato, come sottofondo.
Montando a bordo della sua auto posteggiata, poteva già sentire la pressione del sangue che cominciava a salire. Doveva uscire a marcia indietro da un parcheggio a spina, e l’unica speranza di trovare via libera alle sue spalle era che qualcuno perdesse secondi preziosi allo scattare del verde, all’incrocio vicino, oppure che un maledetto pedone col telefonino facesse perdere tempo a tutti attraversando col rosso; solo così avrebbe potuto sgattaiolare fuori dal suo parcheggio, costringendo il flusso del traffico a dargli tre metri e mezzo di spazio vitale.
Quando dallo specchietto retrovisore vide che una macchina si fermava per occupare il suo posto, Fernando incredulo fece retromarcia più presto che poteva. Poiché la tolleranza automobilistica dura soltanto sei secondi, quando concluse la retromarcia e ingranò la prima, al settimo secondo, il primo clacson già cominciò a protestare.
Se aveste chiesto a Fernando di spiegare la differenza tra l’attraversare un paesaggio africano in Land Rover, con i rinoceronti e le iene intorno, e attraversare Roma per raggiungere la Tangenziale, con finti fuoristrada e scooter rompiballe in ogni dove, vi avrebbe risposto che prima di tutto una Land Rover non è una merda di Fiat Punto fatta di latta, e che in secondo luogo ai rinoceronti e alle iene avrebbe potuto sparare dritto in fronte, mentre agli stronzi che ti tagliano la strada poteva solo sputare qualche parolaccia.
Fernando si incolonnò verso il percorso che portava alla Tangenziale e sopportò con santa pazienza le nuove deviazioni per i lavori in corso. Con meno pazienza sopportò la Smart che superò tutti invadendo la carreggiata opposta, e la stramaledetta Mercedes che invece di andare dritto sterzò a sinistra.
Uno dei grandi misteri dell’universo, secondo Fernando, era che i possessori di Mercedes non usano le frecce. Girano tranquillamente a destra e a sinistra senza nessun avvertimento.
Un tizio che stava uscendo fuori da una villa, un giorno, aveva abbassato il finestrino e gli aveva indicato col braccio che intendeva andare nella carreggiata alla sua sinistra. Aveva sventolato fuori il braccio sinistro, pur di non usare le frecce della sua Mercedes, e Fernando si chiedeva che razza di meccanismo astruso potevano aver montato gli ingegneri tedeschi, per ridurre i loro clienti a tanto.
Dopo numerosi slalom, e nessun cartello informativo, finalmente Fernando riuscì a passare l’ultima strettoia che immetteva alla Tangenziale. Mentre saliva una ripida salita, che portava insensatamente su, all’altezza delle finestre del terzo piano dei palazzi più vicini, un motociclista impaziente lo superò a sinistra per infilarsi rombando nell’intercapedine tra due macchine che gli erano davanti, contro le regole della prospettiva e della meccanica.
Il traffico scorreva, per fortuna. Per qualche centinaio di metri si riusciva persino a mantenere la quarta. La cosa preoccupante era l’avvicinarsi della Stazione Tiburtina, dove si rallentava sempre; ma a parte un gigantesco fuoristrada che cercò di sorpassarlo di prepotenza, Fernando passò oltre l’uscita per la Nomentana senza particolari problemi.
Guardando l’orologio verificò che aveva ancora venti minuti per arrivare in tempo, così imboccò la sua uscita con l’animo pieno di speranza. Mal riposta.
A viale Libia era tutto bloccato. Riuscì soltanto a percorrere una cinquantina di metri, passetto passetto, dopodichè l’intero mondo si arrestò completamente, con lui imprigionato dentro la sua Punto blu.
Calma, pazienza e calma, pensò Fernando, per dieci minuti circa, un record. All’undicesimo minuto di immobilità forzata, cominciò a provare i sintomi di un reduce dal Vietnam.
Quando le cose non vanno bene, un reduce dal Vietnam ha bisogno di un vietcong a cui dare la colpa. A Fernando serviva uno straccio di vigile urbano, di pirata di strada o di casalinga impazzita da maledire e da odiare a morte; ma i vigili urbani, i pirati e le casalinghe queste cose le sentono, e a volte spariscono come i vietcong.
Al quindicesimo minuto la rabbia e la frustrazione cominciarono a crescere come l’acqua che bolle dentro una pentola, con un coperchio pesante che non lascia uscire il vapore.
Al diciottesimo minuto, col mal di schiena e il senso di soffocamento, partirono brutte parole piene di donne dai costumi facili e di parti del corpo utilizzate in modo improprio.
L’appuntamento che aveva, ormai era annullato. Neanche tornare a casa, gli era concesso.
Al ventunesimo minuto Fernando si ritrovò a gridare contro il parabrezza, maledicendo il mondo, il destino e qualsiasi cosa gli veniva in mente. Agitava pericolosamente le mani, anche, e quando sollevò la mano destra, serrata, con l’intenzione di batterla contro il volante, percepì qualcosa di strano alla sua destra e si girò per vedere cos’era.
Nella macchina che l’affiancava, al posto di guida, un uomo si stava agitando in preda a collera incontrollata. Stava gridando con i finestrini chiusi, esattamente come i suoi, e a Fernando arrivava soltanto uno “uao-ao” ovattato.
(... continua)
Racconto pubblicato da Giulio Perrone Editore, nella raccolta "L'Ira", collana LAB.

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