Non ho mai potuto sopportare di viaggiare sui mezzi pubblici di Nuova Roma. E a ragione.
Stamane mi tocca di montare sul 99 stellato, e sul vapobus vi sono già due casalinghe, un pensionato e un moccioso. Poi salgono uno studente trasandato, un altro vecchietto claudicante e un omone dalla pancia straripante, con la camicia abbondantemente aperta che scopre la canottiera.
L’omone appena entra comincia a lamentarsi del caldo infernale e a sventolarsi energicamente con le pagine di un quotidiano. Raggiunge un sedile dopo il mio e vi si abbandona pesantemente. Dà una buona occhiata a tutti i passeggeri (io sono impassibile) e si rivolge a voce alta al conducente, chiedendogli quand’è che si sarebbe partiti.
Naturalmente l’autista l’ignora e l’uomo rivolge la sua attenzione al moccioso appollaiato su un sedile a lui vicino, chiedendogli come si chiama e quanti anni ha. Il moccioso risponde biascicando un nome da moccioso e l’omone si stupisce. “Ma che bel nome”, dice, e “Eh, ma sei proprio grande” e altre amenità del genere, finché il moccioso non attacca un incomprensibile discorso, intervallato da “eh, eh, eh” e pigolii.
L’omone si diverte un bel po’ ad ascoltare quegli insopportabili sproloqui, poi si ricorda che il tempo passa, e ricomincia a lamentarsi del caldo e del fatto che il vapobus non parte ancora. Il conducente volta un’altra pagina del suo giornale sportivo e fa notare che vi sono orari di marcia da rispettare.
L’omone dice “Sì, sì, la voglia di lavorare” e ci sghignazza sopra. Fa l’occhiolino alla madre del moccioso e dice che gli piacerebbe tornare a casa prima di notte. “Non ci vorrei fare la muffa, qui sopra”, aggiunge, e “Mi piacerebbe essere a casa mia, quando dovrò morire.”
Il tutto fra le risatine di qualche passeggero che incrocia il suo sguardo (io sono impassibile) e il canto giocoso e infernale del moccioso che ormai si è scatenato.
Finalmente l’autista mette in moto la vettura, chiude i battenti delle porte in faccia a uno sconosciuto ansimante, e il 99 stellato dà inizio alla corsa.
Il tempo di completare il giro della piazza, pericolosamente inclinati verso la nostra sinistra, e immediatamente l’omone si alza dal suo posto e suona il campanello di fermata. A occhio e croce neanche trenta metri di distanza, rispetto al capolinea di partenza. L’omone scende lentamente, maestoso e soddisfatto, mentre l’autista bestemmia sommessamente e si intuisce che la madre del moccioso vorrebbe applaudire eccitata.
La corsa riprende e a una delle fermate successive sale una mezza dozzina di uomini della milizia. Sono in tenuta d’azione, con tute mimetiche, enormi scarponi, gli zaini e le manette che pendono dagli elmetti coperti di codi. Si sistemano ordinatamente, in piedi, vicino alla porta d’uscita, mentre uno di loro (probabilmente il capo) prima paga i biglietti, poi li raggiunge. Sembra istruirli con brevi parole, dà loro qualche pacca cameratesca, quindi li avverte di tenersi pronti e schiaccia il pulsante di fermata.
Il vapobus si arresta e le sue porte si spalancano: uno alla volta i soldati saltano, gridando ognuno il proprio nome ad alta voce. Il capo li osserva con espressione soddisfatta, dà un’ultima controllata al suo paracadute, infine salta urlando più forte di tutti, e il 99 stellato può ripartire.
Di fronte a me un giovanotto dalle trecce color indaco, appena salito, mi lancia un’occhiata di odio spontaneo e torna ad ascoltare il bollettino d’inquinamento allucinogeno sul suo comunicatore multifunzionale da polso. Il bastardo tecnologico ha un guinzaglio intorno al polso sinistro e un mini cucciolo viola, griffato, che spunta da un tascone della sua casacca termoadattiva, griffata.
Il canegatto tira fuori una lingua minuscola e mi guarda uggiolando. Apre la bocca e ne esce fuori una lingua minuscola. La lingua scivola in direzione del mio piede sinistro, come una stella filante, e come arriva a tiro la schiaccio con la punta della scarpa.
Il canegatto uggiola con un’ottava più alta ed il padrone controlla. Il suo sguardo analizza il perimetro circostante e per tre secondi si sofferma su tre soggetti. I sospetti del bastardo tecnologico si concentrano sul vecchietto con il bastone alla mia destra (io sono impassibile), quindi comincia una guerra di intimidazioni e di minacce velate.
Povero vecchio, penso, in un angolo remoto dei miei ricordi. Però mi sbaglio. Il vecchio ha un tatuaggio yakuza sul polso destro e dalla punta del suo bastone esce la punta di una lama.
Non voglio essere coinvolto e mi alzo per scendere alla prossima fermata. Tra l’altro il moccioso sbraita un’unica, ossessionante strofa di canzonetta da molto tempo (la mia palpebra sinistra trema in modo irritante).
Intuisco movimenti veloci e superfici corporee che si recidono, alle mie spalle. Veloce, apro la mia valigetta ventiquattrore mentre cammino, tiro fuori la ciambella informe e la gonfio soffiando con impazienza. Suono il pulsante di fermata, intanto.
Non appena la ciambella è sufficientemente pronta, la passo sopra la testa e la tengo ferma sui fianchi. La fermata che viene è su un tratto allagato, per sedare la folla. Le porte si spalancano ed il moccioso continua a cantare a squarciagola.
99 stellato di merda. Preferisco farmi il resto del tragitto a mollo, piuttosto che restare ancora in questa gabbia di matti.
“Tasso di inquinamento 75/100”, segnala una boa allucinogena, mentre sto saltando.
Spero soltanto che l’acqua non sia troppo fredda.
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